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27/05/11

IL RUOLO DEGLI INFERMIERI

clip_image001IL RUOLO DEGLI INFERMIERI
La professione infermieristica in Italia si è rinnovata, specialmente alla fine del millennio, per andare incontro alle esigenze di una società che richiede personale altamente qualificato e autonomo e alle esigenze di salute sempre più impegnative
. Attualmente il problema principale nella professione infermieristica, riscontrabile in tutte le “holding professioni” (tutte quelle professioni che hanno come oggetto di lavoro altre persone), è la carenza di personale ovvero il problema quantitativo. Questa carenza è dovuta a vari fattori, ma quello più rilevante è sicuramente la notevole pressione psicologica alla quale vengono sottoposti tali professionisti.
Per risolvere il problema della quantità dobbiamo intervenire su quello della qualità, ricordandoci che questa professione richiede un alto impiego di risorse e soprattutto una grande forza emotiva da mettere a disposizione dei pazienti. Il compito dell’infermiere infatti è "prendersi cura" dei pazienti, svolgendo il più delle volte anche la funzione di mediatori di informazioni, e spesso sono i soli operatori che comprendono il dolore, la sofferenza e la morte.
Gli infermieri, possono essere definiti anche "care manager", professionisti, quindi, con capacità tali da poter adempiere ad un lavoro di alta qualità, per svolgere il quale non devono mancare elementi umani come comprensione ed amore. Gli infermieri saranno sempre di più chiamati a gestire situazioni difficili data la complessità della realtà in cui operano, basti ricordare l'enorme sviluppo scientifico e tecnologico, con cui ogni giorno ci dobbiamo confrontare, l'invecchiamento della popolazione, il fenomeno della multi etnia della società e la sempre più alta frequenza di malattie mortali, quali il virus dell'HIV e il cancro. Nasce quindi l'esigenza di uno sviluppo continuo della competenza e della responsabilità di questi operatori.


L’approccio alla persona
Nell’analizzare il fenomeno del burn-out nella professione infermieristica potrebbe risultare utile approfondire alcune fra le tecniche utilizzate per l’approccio e la relazione con i pazienti, in particolare nei reparti ritenuti più complessi nello stabile relazioni con i pazienti, come quello di psichiatria.
La "relazione affettiva" è inevitabilmente presente e rilevante all'interno di quei rapporti che pur non potendo definirsi tout-court "psicoterapeutici" in senso stretto, sono però senz'altro "terapeutici" in senso lato: il rapporto infermiere-paziente è certamente e prevalentemente uno di questi.
Nel processo assistenziale tipico della professione infermieristica "è la qualità del nursing ad essere terapeuticamente decisiva": è fondamentale da parte del paziente, poiché percepire che i propri bisogni sono compresi ed accolti come significati spunti per il processo terapeutico, ha una notevole rilevanza sull'efficacia del progetto stesso, ma è molto importante anche per l'infermiere, poiché comporta un "ritorno" positivo in termini di riconoscimento e gratificazione personale.
L'interiorizzazione e il mettersi in relazione con il paziente con un atteggiamento di tipo introspettivo-psicologico facilita la relazione infermiere-paziente e passare del tempo con il paziente, nell’ottica di starci insieme, è condizione necessaria per un ascolto empatico, per poter avviare un processo di comprensione del paziente e quindi per essere predisposti all’aiuto. La relazione che instaura l’infermiere è quindi di tipo terapeutico, quando l'infermiere risponde alle richieste del paziente seguendo modalità che favoriscano un cambiamento. Per creare questo tipo di rapporto significativo potrebbe addirittura essere necessaria un'identificazione con lui, con i suoi bisogni, per poter effettivamente essere in grado di rispondere adeguatamente ad una richiesta d’aiuto esplicita o tacita da parte del paziente. Nel caso dei pazienti psichiatrici ovviamente per instaurare questo tipo di relazione è necessario che questi abbiano ancora un buon contatto con la realtà. L’infermiere che riesca ad entrare in un rapporto empatico con il paziente psichiatrico e si metta nella posizione di una relazione effettivamente terapeutica può quindi creare un’alleanza in grado di produrre cambiamenti legati alle strategie comportamentali e capace di riattivare della capacità residue. (Gnocchi, Memmi, Tacchini, 1993).
Nel creare le condizioni per poter sviluppare una relazione terapeutica significativa anche l'infermiere che lavora in un servizio di salute mentale rischia di incorrere nel burn-out, che può limitare una volta individuati i bisogni particolari del paziente psichiatrico non andando troppo oltre quelle che sono le funzioni specifiche del nursing. D’altra parte l’'infermiere non può condurre troppo oltre il rapporto con il paziente in setting troppo "strutturati", che costituirebbero, di fatto, una vera e propria psicoterapia, perché così facendo correrebbe il rischio di entrare in un ruolo mal definibile che esula da quello tipico dell’infermiere.
La relazione con il paziente, in alcuni casi può divenire terapeutica, ma il setting, i ruoli e il tempo che gli infermieri devono e possono dedicare ai pazienti rischiano di mettere in luce solo il lato negativo che si porta dietro, un alto coinvolgimento, con un conseguente aumento del rischio burn-out tipico di tutte le professioni d’aiuto e un alto turn over degli infermieri che spesso non porta a sviluppare relazioni significative con i pazienti.
Il fenomeno del "burn-out”
Mai come al giorno d'oggi, il fenomeno del "burn-out” emerge fortemente in tutte quelle persone che come professione hanno il compito di "'occuparsi della gente".
L'espressione “burn-out" compare per la prima volta negli anni '30 nel gergo sportivo, per indicare il fenomeno per il quale, un atleta, dopo alcuni anni di successi si esaurisce, letteralmente si brucia, e non può dare più nulla dal punto di vista agonistico.
La trasposizione terminologica in ambito lavorativo avviene negli anni ‘70, quando inizia a svilupparsi la letteratura specifica sulle "malattie delle professioni d’aiuto”; più precisamente il “burn-out” è una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione, e di riduzione delle capacità lavorative che può presentarsi in individui che per mestiere si occupano di altri. Questo fenomeno è infatti riscontrato in larga misura soprattutto nel personale infermieristico; gli infermieri infatti, non solo si trovano impegnati nel rapporto che li lega con il paziente al quale devono assistenza fisica e sostegno morale, ma sono anche basilari come tramite per le comunicazioni tra paziente, medico e familiari.
Nel burn out è facile entrare ma assai difficile uscire. A meno che la struttura lavorativa in cui lavorano le persone colpite non adotti strategie di coking e di soluzione dei guai che alimentano lo stress: il superlavoro male organizzato, la mancanza di gratificazioni, l’umanizzazione della vita in ospedale.
Nonostante la grande importanza che questa figura riveste all'interno della struttura ospedaliera, essa tuttavia si trova ancorata in una posizione subalterna rispetto a quella del medico; infatti l'infermiere non gode della stessa autonomia, libertà decisionale ed importanza che connotano invece la professione del medico. Le dinamiche relazionali medico-infermiere-paziente, sono vissute dall’infermiere come frustranti, in quanto nei confronti dei medici si percepisce come un subordinato e attende gratificazioni che lo elevino al livello del collega dottore, creando quindi una dinamica di frustrazione; mentre con il paziente si comporta come un medico, ma con un’altra frustrazione, questa volta causata dalla consapevolezza di non possedere le capacità e le competenze di un “sapere legittimante” tali atteggiamenti.
Tutto ciò crea una certa frustrazione, alla quale gli infermieri rispondono con un incremento dell'intensità della relazione interpersonale con il malato. Ma ciò, sebbene da una parte sia gratificante per gli infermieri che ritengono di essere gli unici a conoscere realmente il malato, essendo partecipi in prima persona delle loro paure e speranze, d’altro canto a lungo andare, tale situazione può infondere nell’infermiere una sindrome di esaurimento emozionale.
Questo sintomo è il primo segnale del fenomeno del “burn-out". Si tratta più nel particolare di una reazione specifica che si instaura a causa di un continuo contatto con altri esseri umani che sperimentano situazioni problematiche e quindi motivi di sofferenza; il suo nucleo è caratterizzato da un sovraccarico emozionale a cui segue una fase di esaurimento emozionale, poiché emerge una sensazione di eccessivo coinvolgimento emotivo e alla fine il soggetto colpito non è più in grado di far fronte alle richieste d'aiuto. È considerato una forma di stress lavorativo dove la causa è l'interazione sociale, appunto tra l’infermiere e il malato.
L'infermiere colpito dal “burn-out" si sente sfinito, svuotato, e inizia a non avere più l'energia per affrontare la quotidianità lavorativa; è da sottolineare come questo fenomeno non si instauri improvvisamente, ma come in realtà sia un processo degenerativo che inizia in modo talmente graduale che il lavoratore ne è del tutto inconsapevole.
Sicuramente il soggetto colpito dal “burn-out” avverte che c'è qualcosa che non va, ma non ha gli strumenti per definirlo specificatamente e il più delle volte non è capace di qualificare il suo malessere e il conseguente disagio, continua così ad adempiere al suo lavoro rifiutandosi di accettare l’idea che qualcosa non va, anche se purtroppo il problema realmente esiste e lui ne è comunque condizionato e compromesso sia emotivamente che per efficacia.
Per fare chiarezza sulla particolare dinamica evolutiva del fenomeno “burn-out” e sull’evoluzione dell’insorgenza dei suoi sintomi può risultare utile dividerlo in tre fasi:

  1. nella prima fase l'infermiere sperimenta una carenza nella disponibilità delle proprie energie e risorse nei confronti delle richieste dei malati;
  2. la seconda fase è costituita da una risposta emotiva in genere, di breve-media durata, caratterizzata da ansia, tensione, affaticamento ed esaurimento psico-fisico: le conseguenze sono insonnia, cefalee, senso di fallimento e frustrazione;
  3. la terza fase è caratterizzata dall’acquisizione di un nuovo più distaccato approccio ai malati, si comincia a tenere un atteggiamento "burocratico” dove vengono considerati più come cose che come persone. Si verifica un cambiamento anche nel modo in cui ci si prende cura di loro; emerge in maniera particolare l’aspetto routinario dell'assistenza, si presta sempre meno attenzione ai bisogni del malato, e si mettono in atto delle risposte comportamentali caratterizzate da scortesia, insensibilità e indifferenza.

Le conseguenze più ricorrenti di tale fenomeno, si riscontrano nel rendimento lavorativo dell'infermiere che risulta sempre meno efficiente e molto più critico nei confronti dei colleghi e dell'ambiente di lavoro, fino ad arrivare al livello di comportamento di una sterile "attinenza al regolamento", limitando il più possibile il proprio coinvolgimento. Tutto ciò provoca nell’infermiere problemi psicologici da non sottovalutare, come una continua e profonda insoddisfazione di sé, con una crescente frustrazione e vulnerabilità che possono anche provocare incapacità da parte di chi sperimenta il fenomeno di continuare a lavorare.
“In definitiva il “Burn-out” o disadattamento al lavoro può essere letto come difficoltà di costruire un senso soddisfacente a livello dell’immagine di sé, del rapporto con i gruppi di lavoro e a livello dell’organizzazione.” (Guerra Giovanni, Psicosociologia dell’ospedale, cit.,. pag.128)
Da un’indagine condotta da un’équipe di psichiatri del Dipartimento di salute mentale di Ferrara (Sanità Management marzo 2001) che ha coinvolto 271 medici e 734 infermieri ai quali sono stati somministrati questionari contenenti alcuni test psicometrici e una checklist per misurare sintomi somatici e psichici relativi allo stress occupazionale è emerso che circa il 56 per cento dei medici e il 70 per cento degli infermieri presentano il problema burn-out.
Gli infermieri dall’indagine appaiono frustrati, non valorizzati adeguatamente dalla direzione ospedaliera, che viene percepita come un nemico contro la quale allearsi, esauriti emotivamente e intellettualmente da un lavoro stressante, soprattutto quando si ha a che fare con i malati terminali e i bambini.
Inoltre emerge che i valori di stress sono maggiori per le donne in genere, sono alti anche per i medici più giovani che progressivamente diminuisce al crescere dell’anzianità mentre per gli infermieri avviene il contrario. Per gli infermieri le aree più a rischio di burn out sono quella pediatrica e dei malati terminali, mentre si registra un minimo di stress nei medici dell’area di medicina generale. Nell’indagini emergono tre modalità attraverso cui si manifesta il burn out: un esaurimento emozionale, caratterizzato da perdita di energia; depersonalizzazione, che è una tipica tendenza difensiva che consiste nel trattare i pazienti come oggetti spersonalizzandoli; una ridotta realizzazione personale.
Riunioni di gruppo come terapia del fenomeno del "burn-out"
Facendo un’analisi delle strategie di prevenzione e di trattamento del Burn-out, dobbiamo tener presente gli elevati costi che coinvolgono tutti coloro che sono coinvolti da questo disagio:

“[…] gli operatori, che pagano in termini personali, anche attraverso somatizzazioni (le malattie professionali) e nella sfera familiare e relazionale; per gli utenti, che rischiano di ricevere gli interventi meno qualificati o inefficaci; per l’organizzazione sanitaria, che risulta aver minor produttività ed efficienza nell’erogazione dei servizi; per la comunità in genere, che vede vanificati forti investimenti in ambito sociale e nei servizi pubblici” (Arcuri L., Manuale di psicologia sociale, Bologna, 1995 Ed. Il Mulino pag. 500)

E’ significativo riportare uno studio condotto in una comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti con sedici operatori sanitari dove era stato richiesto un intervento poiché negli ultimi mesi il numero degli abbandoni degli operatori sanitari si era quasi triplicato. La comunità aveva tutto l'interesse a capire il fenomeno; la somministrazione di alcuni questionari mise in evidenza un esaurimento emotivo superiore alla norma e una depersonalizzazione elevata. Questa situazione fece sì che si incrementassero il numero delle riunioni, dove si vide una maggiore partecipazione di tutti nelle decisioni, scandendo ulteriormente compiti e mansioni di ognuno per responsabilizzare ciascuno ad un'indipendenza reciproca dagli altri. Si decise inoltre, di sottoporre periodicamente ad una supervisione l'attività dello staff. Gli interventi sulle variabili personali comportarono l'incremento dell’autostima di ognuno e del gruppo; l'intervento, infine, sulle variabili di gruppo mise in evidenza la necessità di una riunione dello staff che doveva compiersi ogni settimana; l'argomento doveva concentrarsi sullo stato d'animo e sulle dinamiche personali degli operatori. Nell'arco dei successivi tre mesi, gli abbandoni cessarono e con un intervento durato complessivamente trentadue giorni, fu possibile evitare un burn-out diffuso.
Questi risultati hanno evidenziato come il primo indice ad alterarsi sia quello di depersonalizzazione. Oltre questo fattore, ce ne sono altri due, la realizzazione personale e l'esaurimento emotivo che solitamente compaiono nelle interviste di gruppo, dove l'operatore ha modo di esprimere ed auto valutare meglio i propri vissuti lavorativi e "l'effetto eco" di questi nella vita privata.
Il burn-out ha infatti un'elevata capacità propagativi dall'ambiente lavorativo a quello familiare. Gli undici operatori infatti hanno riferito che, in concomitanza con la caduta della qualità lavorativa, si erano verificate ripetute conflittualità all'interno delle relazioni parentali significative.
Conclusioni
In conclusione, è possibile notare due aspetti critici inerenti alla professione infermieristica. Il primo riguarda l'organizzazione sanitaria che sembra abbia difficoltà ad appropriarsi della cultura del miglioramento, che presuppone l'accettazione dei limiti, di errori e quindi l'idea del cambiamento. La seconda criticità riguarda il delicato ruolo ricoperto dal personale infermieristico, con le sue specificità, come interfaccia fondamentale nel percorso di diagnosi e cura fra paziente e medico curante, tale fondamentale ruolo troppo spesso non viene considerato in modo adeguato e tutelato dal rischio de burn-out.
In generale è possibile evidenziare che quando gli ambienti dove agiscono i "care manager" sono pervasi dal "burn-out", è evidente che la loro efficacia sul piano professionale cade verticalmente, e quanto più tale fenomeno viene accettato come inevitabile, tanto più la maggior parte degli operatori tenterà di adattarvisi; il risultato di ciò è un crescente numero di operatori sanitari con problematiche di tipo psicologico e psicosomatico.
Anche nella ricerca condotta a Ferrara viene evidenziato come il rischio maggiore è che lo stress diventi talmente pervasivo da “contaminare” l’intera struttura ospedaliera, che a quel punto farà di tutto per non riconoscere il problema, e reagire in modo difensivistico emarginando chi più degli altri si fa portatore esplicito del disagio.
Risulta che a tutt'oggi è un po’ troppo limitato l'interesse mostrato dalle organizzazioni che gestiscono la salute nei confronti di fenomeni ormai noti e rilevabili come il “burn-out”.
Bibliografia
Arcuri L., Manuale di psicologia sociale Bologna, 1995, Ed. Il Mulino
Bettini P., Domina G., Burn-out: il prezzo dell’assistenza 1999
Guerra G., Psicosociologia dell’ospedale Roma, 1992, Ed. La Nuova Italia Scientifica.
SANTINELLO Massimo, La sindrome del Burnout. Aspetti teorici, ricerche e strumenti per la diagnosi dello stress lavorativo nelle professioni di aiuto, Pordenone, Erip Editrice, 1990.
Gnocchi E, Memmi V, et al. Nuovi Modelli di intervento dell’infermiere psichiatrico. Bollati Boringhieri, Torino, 1993

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titolo: Il ruolo degli infermieri
autore: Giovanni Massini
argomento: Psicologia Sociale
fonte: Vertici Network
documento stampato da www.vertici.com

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