"LE RESPONSABILITA' NELL'ESERCIZIO DELL'ATTIVITA' SANITARIO- INFERMIERISTICA E DELLA CAPOSALA" Marco QUADRELLI |
1.- Le professioni intellettuali L’esame del problema della responsabilità civile in ambito sanitario e in particolare in campo medico, deve preliminarmente far chiarezza intorno alla nozione di professione intellettuale, quale attività, di particolare pregio per il carattere intellettuale, che trova l’elemento qualificante nella prestazione dell'opera puramente creativa. La responsabilità civile assume caratteri peculiari nelle professioni intellettuali, attività di particolare pregio per il loro carattere intellettuale, contraddistinto dall’elemento qualificatorio dell’opera puramente creativa, svolta dal singolo professionista, che accanto all’opera materiale, ponga un quid pluris rappresentato da un significativo ruolo svolto dall’intelligenza e cultura ed espressamente tutelato dalla Costituzione all’art. 35 co. 1, in ordine al lavoro in tutte le sue forme. |
Il disposto degli artt. 2229 e ss. c.c. nella collocazione codicistica non fa rinvenire alcuna definizione dell’aggettivo “intellettuale”, sovvenendo in aiuto l’art. 2230 c.c., che tende a qualificare il rapporto con riferimento alla prestazione, richiamandosi al concetto di opera intellettuale, mancandone – tuttavia – una precisa codificazione del concetto4, oggetto di rimando alle disposizioni generali sul lavoro autonomo, nell’ambito della regolamentazione inerente il contratto d’opera. Allora, la collocazione codicistica del professionista intellettuale - nel lavoro autonomo - permette di qualificarlo proprio come un vero e proprio lavoratore autonomo, con una certa libertà di movimento in ordine alle modalità di esecuzione dell’opera. Onde, gli elementi che connotano un professionista sono da ricercarsi nell’autonomia, come determinazione degli ambiti e degli spazi entro cui muoversi ed effettuare le proprie scelte professionali di accettazione o meno di un incarico, dell’organizzazione dei mezzi tecnici idonei a realizzare l’oggetto del contratto, della “libertà come assenza di vincoli di subordinazione gerarchica e disciplinare nei confronti del cliente”, come confermato anche dalla giurisprudenza, che vede la insistenza dei propri obblighi - anche nel rapporto sia con l’operatore sanitario che con il cliente finale (il paziente) - per esempio con l’iscrizione a un albo quale interesse generale relativo alla pubblica fede. Altri elementi peculiari caratterizzanti la professione intellettuale sono da individuarsi nella personalità dell’esecuzione della prestazione e la possibilità di avvalersi – sotto la propria direzione e responsabilità – dei sostituti e ausiliari, se consentito dal contratto o dagli usi e non sia incompatibile con l’oggetto della prestazione. La responsabilità del professionista intellettuale è personale, sia contrattuale che extracontrattuale. Qualora essa si colloca nella responsabilità da attività economica, si consente di coniugare la responsabilità dell’impresa sanitaria con quella dei singoli operatori. Sostanzialmente, se un professionista intellettuale è inquadrato in una struttura imprenditoriale, il modello contrattuale non è fra il professionista medesimo e l’operatore, ma intercorre tra l’ente e l’operatore. Tale visione non esclude la responsabilità personale del singolo professionista (comunque lavoratore dipendente), con necessario richiamo al combinato disposto degli artt. 1176 c.c. (diligenza nell’adempimento) e del 2236 c.c. (problemi tecnici di speciale difficoltà), perché generatrice di attività economica. 2.- Le sanzioni che incidono sull’attività professionale: la responsabilità amministrativa Il concetto di responsabilità in generale presuppone quello di illecito, ovverossia l’ordinamento giuridico attribuisce illiceità a un comportamento, attribuendovi una sanzione (punitiva e talora risarcitoria), in funzione preventiva e futura, di riequilibrio (almeno parziale) degli interessi lesi dalla condotta illecita. Qualifichiamo l’atto illecito, esemplificativamente, come una condotta umana (azione od omissione) che dà luogo alla violazione di un comando/divieto giuridico, onde l’illecito e la conseguente responsabilità può essere civile, penale o amministrativa. Le sanzioni incidenti sull'attività professionale sono disposte da una pluralità di soggetti che variano in base al rapporto da cui origina l'attività professionale esercitata. Nel capitolo secondo si è già parlato ampiamente di responsabilità disciplinare. Qui giova ricordare che essa deriva dal potere di autogoverno dei singoli ordini/collegi ed è riconducibile alla responsabilità amministrativa, in quanto nell'ordinamento italiano l'esercizio delle professioni sanitarie assume rilevanza pubblica. Onde il controllo per la salvaguardia delle regole deontologiche viene delegata agli Ordini/Collegi che assumono la natura di enti pubblici. Anche che il dipendente iscritto a un ordine/collegio professionale ha due profili distinti di responsabilità disciplinare: nei confronti dell'ente da cui dipende (art. 2106 c.c.) e nei confronti dell'ordine/collegio professionale per quanto concerne il rispetto delle regole deontologiche. Si esamina in questo paragrafo la responsabilità amministrativa, intesa come obbligazione di risarcimento dei danni cui soggiacciono gli amministratori e i dipendenti pubblici per i danni causati all’ente nell’ambito o in occasione del rapporto d’ufficio di guisa che l’accertamento della medesima comporta la condanna al risarcimento del danno a favore dell’amministrazione danneggiata. Due sono i presupposti in conseguenza dei quali un soggetto può essere chiamato a risponderne: il dolo e la colpa grave. Il danno cui si fa riferimento consiste nel pregiudizio economico ovvero nella diminuzione patrimoniale, che il soggetto danneggiante sarà tenuto a risarcire. La responsabilità amministrativa sanitaria è diretta a tutelare i pubblici bilanci dalle lesioni che in conseguenza dell’azione dolosa o gravemente colposa dei medici e dei sanitari in genere, possono essere depauperati in conseguenza di sentenze favorevoli ai pazienti danneggiati. La giurisdizione in materia appartiene alla Corte dei conti [Cass. 15288/2001 per cui quando una struttura ospedaliera pubblica viene condannata al risarcimento del danno di un suo paziente in conseguenza di un fatto colposo del proprio dipendente e successivamente agisce in rivalsa nei confronti dello stesso dipendente, il giudice competente è la Corte dei conti, poiché la giurisdizione contabile, secondo la previsione dell'art. 52 R.D. 12.7.1934 n°1214 e dell'art. 103 Cost. non si riferisce ai soli fatti inerenti al maneggio di denaro, ma si estende ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi economici arrecati allo Stato o ad enti pubblici da persone legate da vincoli di impiego o di servizio ed in conseguenza di violazione degli obblighi inerenti a detti rapporti] e il danno che viene contestato è di tipo indiretto, in quanto può essere contestato solo quando di verifichi a carico dell’amministrazione “l’obbligo giuridico di risarcire il terzo, e tale obbligo emerge nella sua pienezza nel momento in cui si sia evidenziato nell’an e nel quantum con un negozio unilaterale (riconoscimento del debito), o bilaterale (transazione) o con una sentenza definitiva di condanna della pubblica amministrazione a risarcire a un terzo un danno prodotto per inadempimento contrattuale o per fatto illecito del proprio dipendente”. Conseguentemente, il decorso del termine prescrizionale, ai fini dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei responsabili, ha inizio con il momento in cui sorge l’obbligo giuridico di risarcire il terzo [Corte dei conti, sez. giur. Regione Sicilia, sent. 16.5.2007 n°1287]. Il problema della colpa grave assume rilievo per il fatto che il giudice contabile non può e non deve valutare il rapporto in contestazione alla stregua di immutabili norme prefissate, non rinvenibili, peraltro, in alcuna normazione al riguardo [Corte dei conti, III sez. Centrale d’Appello, n° 315 del 21.12.1999]. In particolare il giudice deve prefigurare nel concreto l'insieme dei doveri connessi all'esercizio delle funzioni cui l'agente è preposto, attraverso un'indagine che deve tener conto dell'organizzazione amministrativa nel suo complesso e delle finalità da perseguire, alla luce di parametri di riferimento da porsi come limite negativo di tollerabilità, dovendosi ritenere realizzata un'ipotesi di colpa grave ove la condotta posta in essere se ne discosti notevolmente. Pertanto, nell’attività sanitaria. la condotta può essere valutata come gravemente colposa quando per esempio il comportamento del medico sia stato del tutto anomalo e inadeguato, tale da costituire una devianza macroscopica dai canoni di diligenza e perizia tecnica e da collocarsi in posizione di sostanziale estraneità rispetto al più elementare modello di attività volta alla realizzazione degli interessi cui gli operatori pubblici sono preposti. Per configurare .ipotesi di responsabilità a carico del medico e del sanitario, non basta che il comportamento sia stato riprovevole in quanto non rispondente perfettamente alle regole della scienza e dell'esperienza, ma è necessario che, usando la dovuta diligenza, abbia potuto prevedere e prevenire l'evento verificatosi; perché, quindi, possa parlarsi di responsabilità per colpa grave si deve accertare che si siano verificati errori non scusabili per la loro grossolanità o l'assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione ovvero il difetto di quel minimo di perizia tecnica che non deve mai mancare in chi esercita la professione sanitaria e, comunque, ogni altra imprudenza che dimostri superficialità e disinteresse per i beni primari affidati alle cure di prestatori d'opera Il criterio di valutazione della condotta deve essere incentrato sul livello di diligenza impiegato nello scegliere discrezionalmente mezzi e modi suggeriti dalla scienza medica in relazione alla gravità della patologia riscontrata sul paziente in quanto è necessario accertare se si abbia usato il metodo operativo più adatto al caso concreto ed alle circostanze contingenti. Un ultimo problema riguarda il quantum debeatur, in quanto nella valutazione del danno è necessario tener conto anche della situazione ambientale nella quale l’operatore sanitario si è trovato a svolgere le sue mansioni. Appare pertanto palese il fatto che non possano essere addebitate al medico/sanitario le conseguenze dannose che sono da attribuire alla struttura sanitaria nel quale lo stesso si trova ad operare. In ipotesi di questo tipo ricorrono le condizioni previste dagli artt. 52 co. 2 R.d. 1214/1934 e 83 R.d. 2440/1923 per la riduzione dell'addebito (per esempio può essere utilizzato qualora l'evento dannoso sia dovuto a riduzione dell'attenzione dell'operatore, indotto da incombenze di ordine materiale notevolmente gravose e ripetute nel tempo, oppure nelle ipotesi di giudizio di responsabilità per turni gravosi di lavoro, situazioni queste che possono essere ricollegate a difficoltà operative riferibili a soggetti diversi e che devono quindi portare ad una condanna limitata rispetto all’entità del danno subito dall’amministrazione). 3.- Adempimento, onere della prova e obbligo di curare I problemi posti nell’esercizio della professione sanitaria sono in ordine al rapporto sia di natura contrattuale che di responsabilità, cosa che si riflette nella distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, con rilievo della diligenza quale criterio di determinazione della prestazione in funzione del risultato conseguito. Ciò va a influire sulla ripartizione dell’onere probatorio dell’inadempimento e sull’applicazione della misura in ordine alla responsabilità debitoria. L’oggetto dell’obbligazione è assunto a elemento di distinzione tra i rapporti obbligatori in cui la prova della colpa del debitore che non abbia tenuto un certo comportamento deve essere fornita dal debitore e, quei rapporti in cui il mancato conseguimento del bene – in un’attività in cui è presente maggior tecnica – è considerato fattispecie di inadempimento, pur dimostrando al debitore la non imputabilità dello stesso, usando i parametri di cui all’art. 1218 c.c. in combinato disposto con l’art. 1176 c.c., porterebbe a una regola valevole per tutti i rapporti obbligatori, necessario per determinare l’esatto contenuto della prestazione, precisando che la diligenza è la concreta misura del contenuto del dovere di prestazione [Mengoni L., Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Rivista diritto commerciale, 1954, I, 187. In tal senso l’Autore esemplifica che “le cure del medico sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato”], cui deriva un’utilità destinata al creditore: ergo, appunto il risultato, il bene assicurato dal diritto di credito. Lo sforzo di adempiere l’obbligazione è connotato dalla diligenza quale modalità di esercizio della prestazione [Cass. 2.10.2001 n°12198] e – comunque – contenuto dell’obbligo secondo il criterio di buona fede. Onde la natura dell’obbligazione e il regime della prova risultano intimamente connessi, proprio a motivo del riferimento finale al risultato. Tuttavia la massima parte delle obbligazioni professionali concretano l’ipotesi di mezzi e non di risultato, in quanto – con l’assunzione dell’incarico – la prestazione cui il cliente mira è raggiungere il risultato mediante la prestazione dell’opera del professionista, ma non anche – necessariamente – a conseguire il risultato stesso [C.App. Milano, 11.1.1983, in Foro Padano, 1983, 191]. Anche in assenza di un’espressa pattuizione di risultato, qualora si abbia una specifica attività materiale e il risultato non corrisponde alle attese, il professionista può esser chiamato a rispondere ex art. 2226 c.c. per difformità e vizi dell’opera, rendendo l’oggetto materiale inidoneo all’uso cui era destinato, pari a quello previsto in ambito edilizio. Il relativo danno – nel caso di responsabilità medico-dentistica – può essere sia biologico che patrimoniale. Ricondotta nello schema causale della locatio operis, l’obbligazione assunta dal professionista è quella racchiusa nell’idoneo impiego di mezzi in vista di un risultato che potrebbe anche non realizzarsi, non muta d’accento se è dipendente di un ospedale, dovendosi richiamare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato (locatio operorum). Pertanto – in questo caso – si sottrae al potere direttivo in ordine alle modalità di esecuzione della prestazione. Infatti la prestazione dell’opera nell’adempimento di un obbligo di natura pubblica, in vista del perseguimento di un interesse pubblico o – comunque – indipendentemente dal conferimento di un incarico da parte del soggetto destinato a beneficiarne, non inficia quanto sopra detto. Assumono rilevanza i contesti in cui è resa la prestazione sanitaria, distinguendo il sanitario libero professionista da quello lavoratore dipendente dall’amministrazione sanitaria, quello universitario operante in strutture gestite dall’università, quello che lavora in cliniche private e quello che esercita la propria attività in regime di convenzione, adempiendo la propria obbligazione in quanto diretto contraente del paziente o per una relazione di servizio con l’ente. In concreto la definizione del carattere della prestazione medica o infermieristica, porta al trasformarsi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, con la conseguenza del gravare – sul medico – dell’onere di provare la impossibilità non imputabile della prestazione, qualora voglia essere esentato dal responsabilità. Tuttavia l’agire dev’essere sempre connotato dalla diligenza, valutata sempre in relazione alla natura dell’attività esercitata, superando lo scoglio presentato dall’art. 2236 c.c. Il limite che incontra la responsabilità nell’individuazione dell’obbligazione di mezzi è fortemente connotata dalla presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà. Onde, ci sarà responsabilità solo dove l’inadempimento è costituito dalla violazione di doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale. Qualora la prestazione sia scomponibile, lo scoglio del disposto dell’art. 2236 c.c. ritorna sotto forma dell’applicazione dei principi pacificamente acquisiti dalla scienza o dalla pratica, con la conseguenza della sussistenza della responsabilità ordinaria del medico anche per colpa live, se le regole non siano osservate per inadeguatezza della preparazione professionale comune e imperizia, come per omissione della diligenza media, necessitando che sia il paziente a dover fornire la prova della gravità della colpa, fornendo la giudice la meno gravosa serie di dati obiettivi relativi alle circostanze di fatto e di modo in cui la prestazione è stata effettuata. 4.- Onere della prova e obbligo di curare Tento conto che la diligenza definisce l’attività di prestazione - attribuendo a essa lo specifico ruolo d’individuazione del rapporto obbligatorio - la presunzione di colpa ex art. 1218 c.c. si riconnette a favore del creditore della prestazione (il paziente), che provando l’onere di dimostrare il danno e il relativo nesso di causalità, sposta sul debitore (il medico) il dovere di far conoscere in modo chiaro e compiuto la inimputabilità dell’impossibilità sopravvenuta. Il creditore deve sempre provare l’inesattezza dell’inadempimento, in ragione dell’ampiezza di significati attribuiti al criterio della discrezionalità, che sottintende la libertà di scelta delle terapie da parte del medico. Tuttavia trovandosi di fronte a un contratto aleatorio, per l’impossibilità di controllare i processi bio-fisici, il rischio sarebbe sbilanciato solo sulla parte debitoria. Arriva a bilanciare la situazione la peculiarità del contratto di cura, dovendosi guardare al risultato utile per valutare la gravità dell’inadempimento e – di converso – la determinazione dl concetto di esatto adempimento dell’obbligo del professionista. Guardando all’ambito della responsabilità dell’azienda sanitaria per fatto illecito di medici suoi dipendenti, si deve osservare che si tratta di attività materiale della p.a. e si deve verificare la congruità dei mezzi scelti dall’ente per soddisfare il bisogno pubblico, nell’ambito discrezionale tecnico. Quindi la colpa sottende una valutazione preventiva delle capacità di adempimento. L’elemento della prevedibilità, inteso quale idoneità a rappresentare le conseguenze della propria condotta, è da esaminare in concreto alla luce delle circostanze e delle qualità del soggetto agente. Da ciò dipende l’accertamento della responsabilità nei confronti dell’ente, alla luce del combinato disposto degli artt. 1218 e 1176 c.c., mentre quello afferente la responsabilità del medico alla luce dell’art. 2043 c.c. [T. Verona, 15.10.1990, in Responsabilità Civile Previdenza, 1990, 1039]., o comunque – per la nascita dell’obbligazione risarcitoria – necessita la prova dell’inadeguato impiego delle energie richieste per l’attuazione di quello specifico rapporto, inteso quale facere, con la chiamata in causa del profilo della prevedibilità dell’evento dannoso, cosa che induce a una valutazione della capacità personale del medico e –correlativamente – la dimostrazione della diligenza della prestazione effettuata applicando il complesso di nozioni tecniche facenti parte del suo corredo professionale. La nozione di colpa si specifica in tal modo in termini di imperizia, imprudenza e negligenza, applicandosi in questo senso il disposto dell’art. 43 c.p., denotando la nozione dei tre elementi nella difformità del metodo e della tecnica su cui la scelta è caduta dalle tecniche e dalla consolidata esperienza. Si deve far riferimento anche al profilo negoziale del rapporto in ambito sanitario, volgendo l’attenzione all’analisi della funzione svolta dal pubblico servizio (di cui alla l. 833/1978) e al ruolo dell’autonomia privata. Vengono in rilievo il consenso dell’assistito agli accertamenti e trattamenti sanitari, assicurando il diritto alla libera scelta del luogo di cura e di ricovero, altroché dello stesso medico di fiducia, determinando – con ciò – anche le modalità di esecuzione della prestazione sanitaria. 5.- L’errore diagnostico, la tardività della diagnosi e l’omissione di cure Il punto di partenza è la constatazione per cui soltanto terapie idonee a guarire certe patologie conosciute, con un buon margine di probabilità, senza la certezza del risultato, in quanto ogni organismo reagisce in maniera differente allo stesso tipo di terapia per la stessa patologia. E’ – pertanto - semplicistico ritenere che, nel caso di una diagnosi [la diagnosi consiste in un giudizio, in una valutazione, che possono essere diretti e fatti direttamente da una sola persona o che necessitano di accertamenti diagnostici o dell’intervento di altri sanitari specializzati in una determinata branca dell’arte medica. In questo caso la diagnosi fa parte di un atto complesso, un procedimento in cui concorrono conoscenze e strumentazioni diverse] errata, sia facile l’individuazione dell’errore colpevole, entrando qui in gioco diversi fattori. Indi bisogna indagare sulla colpa, che - se generica - è definita con termini generali che sono per lo più equivalenti, individuando l’imprudenza e il difetto di diligenza come condotte che non si sarebbero dovute intraprendere o, se intraprese, che sarebbe stato necessario seguire determinate modalità nella loro esecuzione. Negligenza è un difetto di diligenza riferita a una condotta che prescrive un fare. Imperizia è il difetto di diligenza riferita a un settore professionale. La differenziazione tra imprudenza e negligenza con l’imperizia si impone in modo del tutto peculiare nella colpa professionale. Esaminando la caratterizzazione delle tre figure nell’evoluzione giurisprudenziale, si può notare che in un primo momento, non differenziando la natura della colpa si considerava colpevole (e penalmente rilevante) solo l’errore inescusabile, in nesso di causalità con l’evento. Con la puntualizzazione delle condotte alla luce del criterio penalistico di colpa, si è recato un criterio non rigoroso tutte le volte in cui l’evento è addebitato a titolo di imperizia, mentre in modo rigoroso ogni qual volta l’errore è frutto di un comportamento negligente o imprudente, quale violazione dei comuni canoni della metodologia clinica e - quindi – dando rilevanza alla colpa lieve. Il ragionamento che il giudice deve seguire è di natura probabilistica, in quanto è consentito ricorrere a un giudizio di (alta) probabilità prognostica sugli effetti che avrebbe potuto avere se tenuta la condotta dovuta. Parimenti analogo criterio deve essere seguito per la rilevanza dell’errore diagnostico, per la tardata od omessa terapia. Quanto al problema concernente la tardività della diagnosi, laddove il ragionamento del medico può attribuire, diligentemente e prudentemente, la sintomatologia a una malattia più comune e più probabile, come pure nel caso in cui si ravvisa per quelle malattie con sintomi già attribuiti chiaramente a una certa patologia ed a questa riconducibili, ma che, invece, hanno una causa nuova e diversa. Come anche può essere dovuta a ritardata risposta di laboratorio o ritardata esecuzione di un esame, quando questa è dovuta a carenze organizzative e strutturali e non alla decisione del medico oppure quando la malattia considerata è lontana dalla specializzazione del medico. 6.- Il diligente adempimento della prestazione medica e infermieristica L’intensità del concetto di diligenza varia in funzione dei rapporti e del contenuto dell’obbligo, divenendo criterio di attribuzione della responsabilità e strumento di valutazione dell’adeguatezza dei mezzi impiegati per la realizzazione del fine richiesto dal creditore della prestazione. Correlativamente costituisce la cartina di tornasole del comportamento del debitore in ordine al limite individuato dalle norme di correttezza. Pertanto la diligenza diviene criterio di imputazione della responsabilità e strumento di valutazione dell’adeguatezza dei mezzi impiegati per la realizzazione del fine nell’ambito di una prestazione il cui contenuto è già determinato, trova puntuale conferma nel rapporto che si instaura tra medico/infermiere e paziente e – segnatamente – sul piano della relazione tra i co. 1 e 2 sull’art. 1176 c.c.. Dunque, diligenza come norma di condotta che vale per ogni rapporto obbligatorio e quale criterio operante per definire certi tipi di attività, dove la colpa scaturisce dopo che si è confrontato il comportamento tenuto dal danneggiante con quello previsto dal criterio del buon padre di famiglia, quale parametro obiettivo. Diversa luce è gettata dalla considerazione che la diligenza deve essere raffrontata in base alla finalizzazione dell’attività svolta dal professionista nell’interesse del creditore (quindi secondo i criteri di buona fede e di correttezza da una parte e della modalità di esecuzione dell’intervento, di cui i poteri di controllo e di valutazione dell’esperienza), onde trasformare l’obbligazione medica in obbligazione di risultato. Da ciò risulta che la negligenza è data dalla specifica attività svolta, adeguandosi ai criteri di prudenza e perizia, da intendersi come le regole fissate dalla medicina, da cui non è lecito allontanarsi, perché il farlo costituisce colpa (ergo: perizia intesa come possesso di capacità tecniche e adeguata preparazione professionale). L’unico tipo di distinzione in materia di responsabilità professionale medico-infermieristica è quella fra errore (comportamento obiettivamente diverso da quello che la situazione esige: comportamento tecnico scorretto, non necessariamente colposo, causa il mancato raggiungimento del risultato utile mirato) e colpa (quale conseguenza diretta della mancata conoscenza di principi fondamentali). Ne consegue che il giudizio sulla gravità della colpa è sempre successivo al suo accertamento. Vengono – quindi – sempre in rilievo il profilo limite delle conoscenze scientifiche. Vi è anche un profilo di colpa riconducibile alla violazione di obblighi accessori (nell’ambito della tematica degli obblighi di protezione), in cui i contenuti dei precetti di diligenza e di buona fede si assumono già determinati, sono fonte di responsabilità contrattuale. La loro natura è da ricavarsi in merito al controllo sulle precauzioni da adottare nell’ambito dell’attività, come in ordine alle manchevolezze nell’esecuzione della prestazione. Ovviamente resta al di fuori della connotazione la scelta del metodo di intervento. L’individuazione di tali obblighi si compie – dunque – nell’ambito dell’attività di controllo, quale suo inadempimento. La responsabilità per violazione di obblighi accessori si estende anche all’Asl come all’azienda ospedaliera, responsabile sotto vari profili [Per esempio sotto il profilo di carenza di prassi informativa: [C.App. Venezia, 23.7.1990, in Rivista italiana medicina legale, 1991, 1320]. 7.- La responsabilità per l’attività medica svolta in equipe Il modello di riferimento è quasi esclusivamente concernente l’attività chirurgica e quella terapeutica, in ordine alla presa di decisioni e delle attività che coadiuvano per fatto degli ausiliari [Cass. pen. sez. IV, 15.12.1983 n°10868]. .L’imputazione di responsabilità è affidata al gruppo [Cass. pen. sez. IV, 15.7.1991 n°7601] proprio per le difficoltà di prova del nesso causale ai fini dell’imputazione. I problemi che sorgono sono riconnessi ai poteri di controllo (e al soggetto titolare), anche in presenza di competenze diverse (con la definizione dei compiti spettanti ai membri del gruppo) dov’è riconnesso il modello gerarchico e quindi il potere di direzione e l’obbligo di sorveglianza [Cass. pen. 8.11.1988, in Rivista penale, 1988, 1146]. Viene in rilievo il principio dell’affidamento, secondo il principio del sistema a caduta in ordine alla responsabilità d’equipe: ovvero il confidare nel corretto e diligente operato degli altri [Per es.: Pret. Genova 13.11.1991, in Foro Italiano, 1992, II, 586]. La responsabilità dell’operato d’equipe ha dei risvolti sia civili (colpa) che penali, in quanto è possibile ricondurre esattamente le responsabilità causative del danno, tenuto conto che tutti i componenti dell’equipe medico-assistenziale hanno solidalmente obbligo di garanzia nei confronti del paziente e chi versa in colpa non può invocare a scusante la responsabilità altrui [Cass. pen. sez.IV, 1.12.2004 n°9739]. L'ipotesi dell'attività medica svolta in equipe si verifica in tutti i casi, il paziente, ricoverato in una struttura sanitaria, pubblica o privata, è seguito da più medici, ciascuno munito di una propria specializzazione. Più in generale con il termine “responsabilità d’equipe” ci riferiamo anche all’attività collaborativa del personale infermieristico e paramedico. Pertanto, il quesito che si pone è di stabilire se ed in che misura il singolo operatore sanitario possa rispondere di comportamenti colposi riferibili ad altri componenti dell'equipe e fino a che punto si estende il dovere dello stesso di agire con prudenza, diligenza e perizia laddove egli si trovi a operare unitamente ad altre persone [D’Apollo, Chi è responsabile nelle operazioni in equipe, in Filodiritto.com, e ID, Profili di penale responsabilità nell’attività medica in equipe, in Altalex.com]. L’analisi delle problematiche suesposte sarà relativa sia al rapporto tra medici e ausiliari che tra medici e medici, in tale secondo caso articolandosi ulteriormente in relazione all'essere tra loro, gerarchicamente ordinati, dovendo tener presente le due regole fondamentali per cui la responsabilità penale è personale ex art. 27 Cost. e il fatto che il nostro ordinamento bandisce la responsabilità da posizione. Per quanto riguarda il caso delle operazioni in equipe si fa riferimento alla responsabilità penale dei componenti dell’equipe medica come una somma di comportamenti colposi riconducibili al paradigma della cooperazione colposa ex art. 113 c.p., in combinato disposto con l’art. 43 c.p. Onde avremo cooperazione nel delitto colposo quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all'azione/omissione altrui che sfocia nella produzione dell'evento non voluto. Nella produzione di un evento lesivo, la cooperazione colposa può porsi in essere sia attraverso il compimento di determinate azioni, che come tramite comportamenti omissivi, essendo sufficiente la coscienza della partecipazione altrui all'azione, anche se non è necessaria la conoscenza delle specifiche condotte e dell'identità dei partecipi. In particolare in ambito sanitario, dove vi sono organizzazioni complesse nei cui atti confluiscono condotte poste in essere, anche in tempi diversi, da soggetti tra i quali non v'è rapporto diretto, esistendo il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa perché ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto ha partecipato o parteciperà alla trattazione del caso [Cass s.u. 11.3.1999 n° 5, in Mommo, Responsabilità medica: i vari aspetti della cooperazione colposa e della posizione di garanzia di medici e paramedici nei confronti dei pazienti, in www.Altalex.com]. Si sta facendo strada il principio di diritto, affermato dalla Cassazione [Cass 13.9.2000 n° 9638, in Giurisprudenza italiana, 2001, pubblicata anche in www.altalex.com, ha introdotto il principio in base al quale, la cosiddetta “posizione di garanzia” essendo “espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex art. 2 e 32 Cost, nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità” vincola “ex lege” tutti gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici. Principio confermato da Cass. sez. IV, 11.3.2005 n°9739. Per una disamina approfondita di tali sentenza e per l’analisi degli ultimi interventi in materia si rimanda a Caringella – Garofoli, Giurisprudenza penale 2006, 2006, 231; Mommo, Responsabilità medica: i vari aspetti della cooperazione colposa e della posizione di garanzia di medici e paramedici nei confronti dei pazienti, in www.Altalex.com], in base al quale l'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, rende tutti gli operatori di una struttura sanitaria, titolari di una posizione di garanzia, che li obbliga a tutelare la salute dei pazienti contro qualsiasi pericolo per l'intero tempo del turno di lavoro. Pertanto vi è cooperazione colposa con il medico di guardia e con il personale infermieristico, i quali tutti hanno inserito una condotta parte, utile elemento ai fini della determinazione dell'evento, come pure vi è responsabilità colposa di tutta l’equipe per aver dimenticato nelle anse intestinali del paziente una pinza chirurgica. Al fine di individuare il soggetto concretamente responsabile è necessario rifarsi al principio del corretto comportamento proprio e dell’affidamento nel corretto comportamento degli altri soggetti, evitando i già accennati facili assiomi di responsabilità ricollegati alla posizione di primazia o di anzianità all’interno dell’equipe. Quindi il principio dell’affidamento corrisponde a una valutazione sociale secondo cui ciascun consociato confida nell’altrui rispetto delle regole cautelari, esplicandosi nell’aspettativa sociale che ogni specialista (chirurgo, infermiere, ecc) ha nell’altrui adozione delle leges artis tipiche della propria attività settoriale e che si presume che agisca conformemente al modello dell’homo eiusdem professionis ac condictionis, evidenziando come la standardizzazione dei livelli di responsabilità riprende il disposto di cui all’art. 27 Cost., delimitando entro confini ragionevoli la responsabilità per colpa sul presupposto che, “essendo ciascun individuo capace di intendere e di volere dotato di attitudine all’autodeterminazione responsabile”, non è esigibile un penetrante sindacato sull’operato altrui [Cass, sez. IV 2440/1999, in Cassazione penale, 2000, 583, nota Blaiotta]. Onde per cui ogni operatore sanitario sarà tenuto all’osservanza delle norme cautelari delle rispettive attività nell'ambito del principio dell’autoresponsabilità, per cui ciascuno risponde dell’inosservanza delle relative regole cautelari per ovviare ai rischi dell’altrui scorrettezza, accompagnandosi al principio del coordinamento tra i sanitari, in quanto l’eventuale evento dannoso, derivante anche dall’omissione del successore, avrà due antecedenti causali, non potendo la seconda condotta configurarsi come fatto eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a determinare l’evento [Cass, sez. IV 18568/2005] e – pertanto - in virtù di tali obblighi, ogni sanitario non potrà esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza ponendo, se del caso rimedio - o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio - a errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, sottolineando la necessità per cui ogni sanitario è responsabile del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, oltre a conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell'equipe in modo da porre rimedio a eventuali errori posti in essere da altri, purché siano evidenti per un professionista medio, giacché le varie operazioni effettuate convergono verso un unico risultato finale [Cass, sez. IV 6.10.2006 n° 33619.]. 8.- La responsabilità dell'infermiere e dell'assistente medico Il ruolo del personale infermieristico è di fondamentale importanza all'interno di qualsiasi equipe di cura, in quanto a pieno titolo l’infermiere è un membro insostituibile dello staff. La responsabilità dell'infermiere consiste nel curare e nel prendersi cura della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo, fondando il proprio operato su conoscenze validate e aggiornate, così da garantire alla persona le cure e 1’assistenza più efficaci, assumendo responsabilità in base al livello di competenza raggiunto e ricorre, se necessario, all’intervento o alla consulenza di esperti e riconoscendo i limiti delle proprie conoscenze e competenze e declina la responsabilità quando ritenga di non poter agire con sicurezza [Codice Deontologico (1999) Infermiere]. Se quindi l’infermiere ha il dovere di essere informato sul progetto diagnostico terapeutico, per le influenze che questo ha sul piano di assistenza e la relazione con la persona, prende parte alle decisioni cliniche e al monitoraggio dello stato di salute del paziente per offrire l’assistenza pratica quotidiana ed assicurare che ogni paziente riceva il miglior livello di assistenza in relazione ai suoi bisogni personali, la sua responsabilità è da valutarsi in ragione della capacità di rispondere delle proprie azioni con motivazioni scientifiche convalidate e aggiornate ed è rapportata alla sua capacità di essere consapevole delle proprie azioni, rispondendo personalmente per gli interventi specifici che, sulla base del progetto di cura stabilito dall’equipe medica di reparto, rientrano nella sua autonoma azione, anche se sussiste un obbligo di controllo da parte del sanitario apicale sulla garanzia offerta dal personale infermieristico. Opera pertanto il principio dell’affidamento, rafforzato in ragione delle specialistiche competenze dell’infermiere, tenuto conto che per quegli interventi non attribuibili con assoluta certezza alla autonoma competenza e responsabilità dell'infermiere, il medico potrebbe essere ritenuto anch’egli responsabile, quando abbia omesso i dovuti controlli o non sia intervenuto tempestivamente per ovviare un’omissioni, un’imprudenza o per evitare errori. Sicché il controllo delle apparecchiature deve essere effettuato prima dell'intervento/del trattamento e il sanitario intervenuto successivamente per elidere le conseguenze del proprio fatto colposo non elimina la sua responsabilità [Cass, Pen. sez. IV 15.12.1983 sent. n° 10868, Mass. Foro italiano, 1984, 2342]. Per quanto riguarda i compiti dell’assistente medico, questi collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, seguendo le direttive organizzative dei superiori, avendo la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvedendo direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari; pertanto nell’ipotesi in cui ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso. Quindi il medico in posizione "subordinata" non è un mero esecutore di ordini, ma gode di una sua autonomia, sia pure vincolata alle direttive ricevute. 9.- La posizione di garanzia e responsabilità del medico e dell'infermiere I professionisti sanitari intesi come operatori di una struttura sanitaria sono tutti portatori di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost. nei confronti dei pazienti, la cui salute essi devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità e l'obbligo di protezione perdura per l'intero tempo del turno di lavoro [Cass. IV penale, 1.12.2004-11.3.2005 n°9739]. La posizione di garanzia è l’obbligo di attivarsi che incombe su chiunque intraprenda un’attività pericolosa per evitare i danni ad essa connessi. Per cui, chi guida un veicolo ha l’obbligo non solo di rispettare le norme del codice della strada e quelle generiche di attenzione, diligenza e prudenza, ma anche quello di mantenere il veicolo in buono stato di efficienza al fine di garantirne la circolazione in condizioni di sicurezza per tutti. La situazione non è diversa per la figura del medico/infermiere, per cui deve assumere una posizione di garanzia tipica nei confronti della persona affidata alle sue cure, posizione che consiste nell’obbligo di farsi attivamente carico di tutte le implicazioni rischiose del trattamento, prevedibili in base alla media. 10.- Reati tipici e profili di responsabilità nella professione infermieristica La premessa fondamentale è che l’infermiere deve valutare i propri atti, comprenderne le conseguenze e – infine – agire nell’osservanza della legge. La responsabilità penale deriva dalla commissione di un reato, quale comportamento illecito, punito dalla legge con la pena della reclusione, della multa, dell’arresto o dell’ammenda. Tralasciando la struttura di specie del reato, a tutti nota, mi vorrei brevemente soffermare sui reati che l'infermiere – nell'ambito della sua attività – può commettere, corredatali della specifica giurisprudenza, di almeno un esempio per tipologia di reato e alle particolari situazioni operative. • Omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.): esempio: nei casi di morte verificatesi in trattamenti sanitari effettuati in violazione delle regole sul consenso informato. • Somministrazione e detenzione di farmaci [Per farmaco si intende la composizione presentata come avente proprietà curative o profilattiche di malattie da somministrare allo scopo di stabilire una diagnosi, di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche (D.Lgs. 29.5.19991 n°178)] scaduti e difettosi (art. 443 c.p.): l’ipotesi di reato che ci interessa è connessa alla somministrazione di medicinali guasti/difettosi [La Cassazione ha statuito (sez. I pen. 1.7.1994 n°577) che non ha alcun fondamento la distinzione tra detenzione per il commercio e per la somministrazione, in quanto entrambe rendono possibile l'uso del medicinale comunque difettoso o guasto. Da intendersi – ai fini della configurabilità del reato – di medicinale non preparato secondo le prescrizioni scientifiche o nel quale non si siano verificate le condizioni per evitare pericoli nel suo uso, tali da renderlo inidoneo al suo scopo. In giurisprudenza: Cass., 30.6.1993 n°1168 e 27.10.1982, in Cassazione penale, 1984, 518. In dottrina: Aprile, Scadenza di validità dei medicinali e responsabilità del farmacista ex art.443 c.p.: brevi considerazioni in margine a una innovativa sentenza, in Sanità Pubblica, 1991, 96]. È reato di pericolo in quanto vuole evitare il rischio che siano procurati danni alla persona e non è necessario, per la sua sussistenza, che i danni si siano verificati. L’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico: consapevole detenzione per il commercio. È configurabile il tentativo, sempreché ricorrano gli estremi di cui all’art. 56 co.1 c.p.[ Cass. 12.1.1999 n°3198. Nel caso di specie è stata esclusa la sussistenza del delitto di cui all’art. 443 c.p. nei confronti di una capo-sala in servizio presso un presidio socio sanitario]. È reato procedibile d’ufficio. Particolare è l'ipotesi della responsabilità della caposala [Quanto alla detenzione per la somministrazione e per il commercio: Cass. sez. IV pen. 9.10.1987 n°1772]. • Rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.): Sono tenuti al segreto professionale i professionisti e anche coloro che vengono a conoscenza in virtù del proprio status/lavoro [Cass., sez. VI, 8.4.1999. È configurabile il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio nel caso di infermieri addetti alla camera mortuaria di un ospedale i quali, violando i doveri di riservatezza ed imparzialità alla cui osservanza sarebbero tenuti, nella loro qualità di pubblici impiegati, concordino con determinate imprese di onoranze funebri di dare a queste ultime, dietro corrispettivo in danaro, secondo un turno prestabilito, immediata notizia dei decessi] o comunque i familiari. Non sono segreti quelli che vengono rivelati in presenza di causa legale di rivelazione, ovverossia di obblighi di denunzia derivanti da disposizioni di legge (malattie infettive, delitti perseguibili d'ufficio per i quali il referto è obbligatorio) e comunque dalla rivelazione non deve derivare danno per l'assistito [casi specifici di danno per l'assistito costituiscono l'interruzione volontaria di gravidanza, la tossicodipendenza, l'Aids, la violenza sessuale e i trapianti], essendo la punibilità subordinata proprio al danno procurato o in pericolo di. Esclude altresì la sussistenza del reato il consenso dell'assistito o la divulgazione di un fatto noto. Anche il codice deontologico ne disciplina la fattispecie. • Rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p): costituisce reato l'agevolazione di imprese di pompe funebri [Cass. 30.7.1991 n°2266 e 26.3.1996 n°2029]. • Omissione di referto (art. 365 c.p.): il referto indica tutte le circostanze atte a individuare la persona e il luogo, il tempo e le circostanze sia dell'intervento, del fatto e i mezzi con cui il reato è stato commesso. Vi è l'obbligo di redigerlo per ogni esercente le professioni sanitarie nei casi in cui vi sia la possibilità di un delitto perseguibile d'ufficio (ad es. le lesioni personali dolose). Nello stilare il referto l'esercente le professioni sanitarie riveste la qualità di pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio. È reato di pericolo, contro l’attività giudiziaria. • Rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 co.1 c.p.): l’atto che deve essere compiuto senza ritardo deve attenere a ragioni di giustizia (di sicurezza pubblica), di ordine pubblico, di igiene e di sanità [Ad esempio: C.App. Caltanissetta, 19.6.2000 n°248.; Cass. 28.5.1997 n°754] e dev'essere compiuto da colui che riveste la qualifica di pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio e che abbia il dovere di reperibilità. Nel caso di rifiuto la condotta integra il reato, indipendentemente dal danno cagionato. Qualora vi sia un danno (lesione) da mancato intervento il professionista sanitario risponderà anche del reato di lesione personale o di omicidio colposo. • Violenza privata (art. 610 c.p.): nella professione infermieristica integra tale reato l'abuso di contenzione fisica e i trattamenti sanitari effettuati senza il consenso. • Omicidio colposo (art. 589 c.p.): è delitto contro la vita e l’incolumità individuale e deriva da negligenza, imprudenza, imperizia [Cass., sez. IV, 1.12.2004. Il medico cui è affidato il reparto è tenuto ad informarsi previamente quanto meno delle situazioni di emergenza esistenti al momento della sua assunzione di responsabilità e di garanzia; in considerazione di questo, è del tutto privo di rilievo il ricorso alla clausola contrattuale che avrebbe configurato il suo obbligo di intervento su chiamata, e non è scusante il fatto che gli infermieri non abbiano mai richiesto il suo intervento, essendo dovere e scrupolo di un medico quello di prendere immediata visione, raccogliendo la posizione di garanzia che gli viene trasferita al momento della sua presa in carico del reparto, delle specifiche situazioni degli ammalati, a partire dalle più delicate, e dunque di assicurarsi della corretta applicazione delle terapie prescritte o ritenute necessarie, seguendo di persona l’evolversi della situazione fino alla cessazione della condizione di rischio]. • Sequestro di persona (art. 605 c.p.): si realizza in ipotesi di contenzione ingiustificata in campo sanitario, nel trattamento dei tossicodipendenti e nell'ambito geriatrico. • Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità (art.331 c.p.): punisce chi esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità interrompe il servizio sospende il lavoro turbando la regolarità del servizio [Cass., sez. VI, 18.5.1999. Il reato di cui all’art. 340 c.p. (interruzione di un servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità) è reato di evento la cui consumazione richiede un pregiudizio effettivo della continuità o della regolarità di un servizio pubblico o di pubblica necessità; ne consegue che la mera inosservanza di istruzioni interne o di ordini di servizio, potenzialmente rilevante sotto il profilo disciplinare, è priva di rilievo sotto il profilo penale, quando non produttiva dell’evento di danno richiesto dalla norma in questione (fattispecie in cui la suprema corte ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 340 c.p. nel caso di «turni autogestiti» predisposti da infermieri professionali in servizio presso la locale usl, essendo stato accertato che il detto sistema di turnazione non aveva arrecato alcun turbamento alla continuità e regolarità del servizio di assistenza ai ricoverati)]. • Peculato (Art. 214 c.p.); • Reati di falso (artt. 476 c.p. ss.): destinato agli incaricati di pubblico servizio per le falsità da costoro commesse negli atti che redigono nell’esercizio delle loro attribuzioni. • Abbandono di persone minori o incapaci (art.591 c.p.): nella professione infermieristica si concretizza nella mancata esecuzione del rapporto di cura, abbandonando o non esercitando la custodia di minori o incapaci a loro affidati, mancando di fornire le prestazioni assistenziali di cui necessitano e/o le cure a cui sono obbligati, con rischi per la salute [Tar Lombardia, 11.3.1996 n°292. Se è vero che a norma degli artt. 1, 2 e 6 D.p.r. 14.3.1974 n. 225, la sorveglianza dei pazienti ricoverati in un nosocomio è addossata, in via immediata, agli infermieri professionali e generici, è pur vero che al personale in posizione di capo sala, cui tali dipendenti sono gerarchicamente sottordinati, sono assegnati, come compito d’istituto, giusta l’art. 41 d.p.r. 27.3.1969 n. 128, il controllo e la direzione del servizio degli infermieri e del personale ausiliario; pertanto è legittima l’irrogazione di sanzione disciplinare nei confronti del capo sala per violazione dell’obbligo giuridico di vigilare sull’operato dei detti infermieri e di tenersi al corrente di quanto può capitare ai pazienti ricoverati. T. Brindisi, 5.10.1989. Non rispondono di omicidio colposo i medici, gli infermieri, il direttore del servizio dipartimentale di salute mentale, il direttore sanitario nonché il coordinatore sanitario i quali abbiano omesso, ciascuno per le proprie funzioni, di adottare le misure atte ad impedire i ripetuti suicidi di pazienti ricoverati nel reparto di psichiatria, essendo ormai al tramonto, a seguito della l. 180/78, quella visione della malattia mentale che si traduce nell’assistenza al malato, estrinsecantesi fondamentalmente nella vigilanza stretta del medesimo al fine di impedire che possa arrecare danno a se stesso e agli altri e prevalendo ormai un’assistenza principalmente di tipo terapeutico]. • Violenza sessuale (art. 609 bis – 609-decies c.p.). Sono una serie di delitti contro la libertà personale [C. conti, sez. giur. reg. Marche, 20.2.2006 n°249. Deve essere affermata la responsabilità amministrativa per danno all’immagine degli infermieri che, in violazione dei loro obblighi di servizio, hanno avuto rapporti sessuali con una paziente nei locali di servizio e per di più in orario di lavoro]; • Esercizio abusivo di professione (art. 348 c.p.): per la sussistenza del reato è sufficiente compiere anche un solo atto della professione tutelata, in quanto tale tutela si riconnette sia all'interesse privato che pubblico [Cass. Pen. sez.IV, 12-15.2.1999 n°2652, in Guida al diritto, n°15, 1999] alla tutela di beni quali la salute e l'incolumità, la cui tutela ha riflesso sull'organizzazione sociale. Gli atti tipici ed esclusivi che possono integrare l'esercizio abusivo della professione infermieristica hanno per oggetto i seguenti comportamenti: a) prelievo ematico capillare/venoso [Cass. Pen., sez. VI, 25.11.1987 n°1822 e 21.2.1997 n°1632]; b) esecuzione/somministrazione di fleboclisi; c) cateterismo; d) defibrillazione. che comunque sono sottoposti alla scriminante dello stato di necessità (art.54 c.p.) e temperata dalla fattispecie di omissione di soccorso (art.593 c.p.) se il soggetto è in grado di prestarlo. Tuttavia si incorre nel reato di cui all'art.593 c.p. quando la prestazione del soccorso - in rapporto ai bisogni del caso o alle condizioni di soccorso di colui che interviene – siano insufficienti o siano ritardate in rapporto alla tempestività, valutando caso per caso. Sovviene anche l'art.189 codice strada. Reato connesso all'art.593 c.p. è costituito dall'abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.). Le condizioni per l'esercizio legale della professione infermieristica [Cass., sez. VI, 1.4.2003. In tema di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), pur dovendosi ritenere che, di regola, con riguardo alle professioni sanitarie, l’iscrizione all’albo professionale, prevista come obbligatoria dall’art. 8 d.leg.c.p.s. 13.9.1946 n° 233, costituisca parte integrante dell’abilitazione la cui mancanza dà luogo alla configurabilità del reato, deve tuttavia escludersi che alla suddetta iscrizione - da intendersi come prevista, in realtà, per i soli esercenti la «libera professione» - siano tenuti gli operatori sanitari (nella specie, infermieri professionali) i quali rivestano la qualifica di dipendenti di enti pubblici essendo, anzi, per costoro espressamente prevista, dall’art. 10 citato d.leg.c.p.s. n.°233/1946, la mera possibilità dell’iscrizione all’albo, «limitatamente all’esercizio della libera professione», ove questo non sia loro vietato dagli ordinamenti dell’ente dal quale essi dipendono] sono: a) il possesso del diploma di infermiere; b) l'iscrizione al collegio IPAVSI territorialmente competente; c) l'osservanza dei criteri guida di formazione professionale, del codice deontologico. 11.- Casistica giurisprudenziale sulla figura della caposala La scarsa giurisprudenza inerisce al potere organizzatorio della caposala, quale ruolo intermedio tra infermieri e medici, introdotta con l’art.6 l. 43/2006 [Tale legge prevede che per divenire coordinatore, un infermiere deve avere il master di primo livello in management per le funzioni di coordinamento nell'area di appartenenza e l’esperienza almeno triennale nel profilo di appartenenza. Viene riconosciuto ancora valevole il certificato di abilitazione alle funzioni direttive nell'assistenza infermieristica (ex corsi per caposala). Attualmente invece non viene riconosciuta la Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche come titolo per accedere a tale ruolo. La raccolta delle normative in materia è reperibile agevolmente su: http://www.caposala.net/leggi.htm La materia è esaustivamente trattata in: Destrebecq – Terzoni, Management infermieristico, Carocci, Firenze, 2007; Calamandrei – Orlandi, La dirigenza infermieristica, McGraw Hill, 2008; Vaccani - Dalponte - Ondoli, Gli strumenti del management sanitario. Caposala, personale infermieristico e necessità gestionali, Carocci, Firenze, 1998].: Una diversa utilizzazione del dipendente (nella specie, caposala di un presidio ospedaliero) nell’ambito del medesimo presidio ospedaliero, esula dal concerto di mobilità ordinaria e, pertanto, trattandosi del compimento di un atto che rientra nell’ambito del potere organizzatorio dell’ente è sottratto alla concertazione sindacale. (Cons. Stato, sez. V, 21.11.2003, n. 7517) L’art. 63, 5º comma, d.p.r. 20 dicembre 1979 n. 761, sullo stato giuridico del personale delle usl, specifica che al primario competono esclusivamente «funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura» ed è, dunque, esclusivamente in relazione a tali funzioni che egli deve impartire «istruzioni direttive» ed esercitare «la verifica inerente all’attuazione di esse»; esulano, dunque, dai compiti assegnati al primario, quelli manageriali e di organizzazione aziendale che spettano ai vertici amministrativi delle usl (nella specie, dotazione di contenitore di sostanze venefiche immediatamente distinguibili esteriormente da quelli destinati alla conservazione di medicamenti), così come, in particolare, esula quello della custodia dei veleni, che spetta ad altri soggetti (caposala, infermiere professionale). (Cass., sez. IV, 26.3.1992) La disciplina collettiva - cui, in mancanza di specifiche previsioni di legge, occorre riferirsi per stabilire l’inquadramento dei lavoratori - ben può prevedere, nell’ambito di una determinata categoria, una equivalenza o fungibilità di mansioni (cosiddetta mobilità verticale della categoria) e, in detta ipotesi, il lavoratore inquadrato in tale categoria non ha diritto, a norma dell’art. 2103 c.c., al conferimento di un grado superiore per il fatto di essere stato assegnato a mansioni normalmente affidate a personale avente grado superiore, perché, se al grado non sono collegate specifiche mansioni, non è possibile da queste risalire a quello; di conseguenza, il giudice, nell’indagine volta a individuare i criteri generali ed astratti dettati dalla suindicata disciplina per l’inquadramento dei lavoratori nelle singole categorie e l’attribuzione agli stessi delle corrispondenti qualifiche, deve limitarsi ad interpretare - con adeguata motivazione e nel rispetto dei canoni legali di ermeneutica - il contratto collettivo, senza presupporre che questo, prevedendo diversi gradi di una medesima categoria, debba necessariamente collegare specifiche mansioni a ciascuno di essi, restando irrilevante, in ordine ad un rapporto di lavoro già cessato che un tale collegamento sia previsto da una nuova disciplina contrattuale della quale non sia espressamente prevista l’applicabilità alle situazioni pregresse (nella specie, l’impugnata sentenza - cassata dalla suprema corte - aveva riconosciuto al lavoratore, caposala dell’ufficio posizioni di Palermo in epoca anteriore all’accordo aziendale ed all’organigramma del 28.3.1978, l’inquadramento tra i funzionari di primo grado, sebbene il c.c.n.l. 6.2.1975, per i funzionari di casse di risparmio e monti di credito su pegni, ed il contratto integrativo aziendale vigenti all’epoca del rapporto non specificassero le mansioni corrispondenti a ciascuno dei tre gradi della prevista categoria di funzionario). (Cass., 30.1.1989, n. 570) L’altra parte della giurisprudenza in materia è invece relativa al potere di vigilanza della caposala quanto alla scadenza delle specialità medicinali in detenzione presso l’unità organizzativa cui presta servizio: La detenzione nell’armadio di reparto ospedaliero di specialità medicinali scadute di validità configura un aspetto di reato di mero pericolo previsto dall’art. 443 (e 452) c.p., che postula una pericolosità per così dire presunta del medicinale, divenuto imperfetto per la carenza di efficacia terapeutica dovuta alla scaduta validità; ciò non comporta una automatica attribuzione di responsabilità dei sanitari (direttore sanitario, primari di reparto, infermiera caposala e dirigente della farmacia ospedaliera) incaricati della relativa vigilanza, sotto il profilo psicologico della colpa, che sussiste in ordine alla posizione del dirigente della farmacia interna dell’ospedale, in relazione alla frequenza (più o meno annuale) dei controlli svolti sugli armadi di reparto (nel caso delegata a un farmacista coadiutore, privo di disposizioni specifiche in merito alle modalità di esercizio della attività ispettiva) e alla rispondenza a criteri di diligenza dei controlli effettuati; ma non può dirsi raggiunta la prova dell’esistenza di colpa a carico del direttore sanitario, stante le generalizzate sue competenze in ambito ospedaliero, tra le quali non è specificamente ricompresa la sorveglianza diretta sui farmaci, né a carico dei primari di reparto, con riferimento alla gestione dei farmaci campione all’interno dei reparti (nel caso rinvenuti nell’armadio sottoposto alla vigilanza del dirigente della farmacia ospedaliera e non già nel separato armadio - comune a tutti i medici di reparto - a ciò attrezzato per la custodia di tali farmaci); mentre la infermiera caposala si è (nel caso) avvalsa della facoltà di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di rito (e la relativa sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna). (Pret. Ferrara, 11.11.1994) Secondo l’art. 41, co.1 D.p.r. 27.3.1969 n. 128 - che regola l’ordinamento interno dei servizi ospedalieri - il caposala «controlla il prelevamento e la distribuzione dei medicinali, del materiale di medicazione e di tutti gli altri materiali in dotazione» tra i quali devono ricomprendersi le sostanze venefiche; vero che l’art. 1 D.p.r. 14.3.1974 n. 225, alla lett. f), affida all’infermiere professionale il compito di custodia dei veleni ma, non avendo tale disposizione abrogato la già citata precedente disposizione di legge, è da intendere che il compito di custodia dell’infermiera professionale concorra con l’identico compito del caposala senza, ovviamente, escluderlo. (Cass., sez. IV, 26.3.1992) Il dirigente della farmacia ospedaliera deve controllare la regolare tenuta dei presidi farmaceutici dell’ospedale e redigere i corrispondenti verbali, altrettanto spetta alla caposala, sotto la direzione del primario nei singoli reparti; l’omissione di tali controlli integra la condotta di detenzione di medicinali guasti e imperfetti; tanto più nella sua ipotesi colposa non essendo altresì richiesta la prova della pericolosità dei farmaci guasti o imperfetti perché è presunta iuris et de jure dalle stesse disposizioni di reato. (Cass., 22.10.1987) 12.- Rischi professionali e danni nell'esercizio della professione infermieristica Vi sono dei comportamenti che non integrano dei reati ma la cui violazione possono comportare dei danni e chi ne fa le spese è il personale sanitario. Ovviamente il livello di competenza del personale sanitario fa la differenza nel reagire di fronte alle difficoltà e ai rischi, dovendo comunque essere coadiuvato nel suo lavoro da altro personale sanitario. I rischi cui il personale infermieristico va incontro sono connessi alla gestione tecnica delle apparecchiature (si pensi alla dialisi o delle apparecchiature di anestesia [Cass. 4.1.1983, in Cassazione Penale, 1986, 282] in ordine al suo funzionamento, da effettuare prima, durante e al termine del trattamento). Altro rischio segnalato dalla giurisprudenza è da riconnettersi al reato di lesioni colpose a seguito di fuoriuscita di sangue in apparecchio misuratore della pressione sanguigna [Pret. Torino, 22.3.1989, in Foro Italiano, 1990, II, 58, nota FIANDACA, Omissione di misure anti-aids e contagio di un'infermiera in un reparto ospedaliero]. I rischi possono essere riassunti in quattro tipi: a) chimici; b) elettrici; c) biologici; d) da stress di tipo psicologico. Il primo si riconnette a prelievi di campioni biologici e prelievi bioptici. La prevenzione è data in via legislativa dalle prescrizioni in ordine alle caratteristiche chimico fisiche dei disinfettanti. Il secondo è relativo a microshock causati dal contatto con apparecchiature con tensioni diverse. Il terzo concerne le infezioni a Hbv, Hcv e Hiv, oltre a tutte le altre infezioni ospedaliere connesse alla circolazione extracorporea, per manovre traumatiche, per l'impiego di materiale lesivo dell'integrità della cute. La prevenzione è data da misure aspecifiche di profilassi. L'ultima fonte di rischio, lo stress psicologico è creato da situazioni di microconflittualità nel team operativo, nei rapporti con i pazienti, per delusione derivante dal mancato riconoscimento professionale, dall'organizzazione assistenziale turnistica, come pure dalla routinarietà delle mansioni. |
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